Era la prima volta che vedevo Bruce Springsteen

Avevo esattamente vent’anni, da poco compiuti. Era la prima volta che entravo in uno stadio, e mi trovavo nel prato di San Siro con gli spalti che mi sovrastavano come una cattedrale laica che si ergeva fino al cielo, e andava popolandosi a poco a poco di gente come me, di tutte le età. Era il mio primo grande concerto, il primo grande evento. Era la mia prima volta nel mondo. Era la prima volta che vedevo Bruce Springesteen.

Era un giorno di fine giugno, di quelli in cui il caldo impazza e non lascia tregua, non dà scampo, toglie il fiato. Sugli spalti e nel prato fremeva l’attesa di un evento che era più di un concerto: era il ritorno del Boss. Come un avvento, un’epifania, una resurrezione insieme. L’afa rallentava quasi i movimenti eccitati di tutti noi, imprigionati in quel catino, ammassati gli uni fianco agli altri, cercando pertugi per avvicinarci un passo in più -anche solo un passo- al palco che sembrava quasi un altare sul quale riponevamo le nostre speranze, le nostre aspettative, le nostre aspirazioni. Noi, noi tutti, discepoli fedeli sacrificati all’attesa.

Quando finalmente sale sul palo, con la sua chitarra, nell’entusiasmo generale si alza la preghiera che fa tremare lo stadio e i brividi in tutto il corpo si mescolano a una precarietà di equilibrio: Bruce Bruce Bruce. Bruce Bruce Bruce rieccheggia nella cattedrale. Senza dire niente inizia con The Promised Land. È una terra promessa San Siro, per lui e per noi. E’ una terra promessa a cui siamo giunti in pellegrinaggio dopo tanti anni di attesa.

Faceva caldo quel giorno, talmente tanto caldo che è arrivato il temporale. Un temporale mandato da un Dio inclemente che non può accettare esista un essere vivente di tale potenza, carisma, passione. Un temporale che spaventa, violento e improvviso, da non permettere nemmeno di rendersi conto che sta diluviando, che non permette di trovare riparo.

E lui, il Boss, che esce dal palco protetto, sotto la pioggia, fa due accordi di Waitin’ on a sunny day, guarda in cielo e con la mano fa il gesto: avanti, vieni, scatena la tempesta, fai scendere un nuovo diluvio. Noi siamo qui, continueremo a suonare e a cantare. Let it rain Let it rain Let it rain ripete la canzone. La intoniamo tutti a squarciagola mentre il Boss sotto la pioggia con un cappello bianco da cowboy scivola sul palco. Dio è stato sconfitto, umiliato, zittito da decine di migliaia di persone guidate da un profeta moderno.

Avreste dovuto esserci, avreste dovuto vedere gli occhi delle persone intorno a me, nel prato e sugli spalti. Quegli occhi non sono i nostri, quegli occhi li vedi solo a un concerto di Bruce Springsteen. Non abbiamo quegli occhi mentre lo aspettiamo speranzosi ed eccitati, o mentre usciamo distrutti e felici. Quegli occhi non li abbiamo i giorni prima o quelli dopo. Quegli occhi sono solo lì, durante un suo concerto. Sono occhi che hanno tanti colori e una sola luce, velata di lacrime e speranza, di gioia e rabbia, di volontà e disillusione.

Avevo 20 anni e avevo paura, mi sentivo piccolo nella mia prima volta nel mondo, senza sapere chi e cosa sarei stato. Ma ero lì, in quella cattedrale, c’era lui a battezzarmi con una chitarra, il sudore e la pioggia. In quel momento sono diventato grande. Ed ogni concerto di Bruce Springsteen è una messa catartica di sfogo, di rabbia, di motivazione, di speranza, di rivendicazione. Io avevo 20 anni e tutte le mie speranze e promesse in quella terra di speranze e promesse erano già forse infettate, macchiate, infrante. Ma a San Siro, con Bruce Springsteen come un profeta e la E-Street Band come un coro etico di una tragedia greca a suonare, senti che tutto quello che hai perso è perduto, che tutta la tua rabbia ha una possibilità di redenzione, che c’è ancora una speranza, anche se infetta, macchiata, infranta.

Antonio Rezza – Io

Dai che alla fine ce la farai
Ma perchè ce la devo fà alla fine?
Zitto non essere polemico, altrimenti la fine non la vedrai neanche. Dai, insisti adesso, insisti. Da che si ci credi ce la fai. Se ci credi, alla fine, ce la farai!
Ma perchè se ci credo adesso ce la devo fà alla fine?
Mi sei polemico
Perchè devo farcela da vecchio?
Tu non la vedrai neanche la vecchiaia, t’ammazzeranno ancora germoglio. Adesso è il momento di dare il massimo. Aumenta il ritmo
Aiuto mi mancano le forze
Non essere ipocrita, non ce le hai mai avute le forze, se non ce la facevi prima
Non ce l’ho fatta, non ce l’ho fatta

Nuvole senza Messico

Il pezzo di Giorgio Canali mi ha fatto ricordare che volevo provare a fare una cosa

Sto ascoltando Nuvole senza Messico ripetutamente da diversi giorni. La canzone mi piace, in particolare resto affascinato e colpito ogni volta dal testo. Ogni frase ha un uso delle parole che mi stupisce in continuazione. Mi trovo a rileggere nel testo l’accostamento ardito, forte e provocatorio di alcune immagini. Mi sembra di sentirle sulla pelle. Allo stesso modo il pezzo racchiude una disillusa dolcezza e una disincantata rassegnazione che crea un misto di conforto e comprensione.

Questa sera, all’ennesimo ascolto, mi è tornata in mente una cosa che faceva Antonio Bitti con Pinterest e per la quale lo avevo intervistato. Raccoglieva brani di romanzi e li accostava a immagini che metteva insieme in una board. La cosa che mi aveva affascinato. Era come riuscisse con delle immagini a dare un’iconografia all’intero testo da cui di volta in volta estrapolava le citazioni. Avevo provato a riprodurre questa cosa con una classe, quando lavoravo in una biblioteca scolastica. Il progetto aveva funzionato e mi ero ripromesso di farlo di nuovo, ma non c’è più stata l’occasione.

Quindi ho deciso di provarci io, con questa canzone. È venuta fuori questa cosa qui
(dentro ogni immagine c’è parte del testo della canzone, la trovate tutta qui)

The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst | La serie dell’anno

HBO ha nuovamente fatto la serie dell’anno. Anche se non è proprio una normale serie tv. È un documentario di sei puntate che racconta la vita, pazzesca, di Robert Durst, ricco imprenditore immobiliare di Manhattan.

La storia è veramente una storia pazzesca; non c’è trama di film così avvincente, e personaggio così complesso e misterioso. Se fosse stato un film avrebbe vinto il premio come miglior sceneggiatura e miglior attore protagonista. Robert Durst inquieta e diverte allo stesso tempo, non si capisce se è matto o perfettamente lucido, non sai mai se mente o dice la verità.

La sua storia è talmente paradossale che risulta ovvia, oppure è talmente ovvia da essere totalmente paradossale. Un uomo sospettato della scomparsa della moglie 30 anni fa, un uomo accusato di altri due omicidi -la sua migliore amica e il suo vicino di casa- che non si riesce a capire mai fino alla fine se sia il killer più spietato o la persona più sfortunata del mondo.

HBO ha fatto la serie dell’anno perchè ha raccontato tutto ciò magistralmente. Guardando le 6 puntate della serie spesso viene voglia di dire: “ma no, non può essere vero!”, “ma come è possibile che non…“, “questo è matto“, “questo è un genio del male“, “pazzesco, assurdo!”

È la serie dell’anno, perchè la realtà e il regista Jarecki hanno regalato un finale di serie che non si era mai visto per livello di intensità emotiva e di coinvolgimento.

The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst, non perdetelo, una storia pazzesca.

Poi se volete sapere come è finita, guardate -SPOILER- qui, ma solo dopo aver visto la serie

Silicon Valley: salvare il mondo dal data-geddon

La creazione di dati è in tremenda espansione. Con tutti questi selfie e file inutili che la gente si rifiuta di cancellare dal cloud. Il 92 percento dei dati mondiali è stato creato solamente negli ultimi due anni. Al ritmo attuale, la capacità globale di archiviazione dei dati si esaurirà entro la prossima primavera. Sarà una vera e propria catastrofe.
Carestie di dati, razionamento di dati… mercati neri di dati. Un algoritmo di compressione salverà il mondo dal Data-geddon

[Silicon Valley, s02e01]

L’abilità esoterica di dedurre l’orario da un orologio rotto

L’orologio sul muro, che a Doc ricordava i tempi delle elementari a San Joaquin, segnava un’ora che non poteva essere quella giusta. Aspettò che le lancette si muovessero, ma non si mossero: dal che dedusse che l’orologio era rotto, e che forse lo era da anni. Cosa che non gli creava nessun problema, perchè già da molto tempo Sortilège gli aveva insegnato l’abilità esoterica di dedurre l’orario da un orologio rotto. La prima cosa da fare era accendere uno spinello, un gesto che nel Palazzo di Giustizia poteva sembrare assurdo, ma di certo non in un luogo appartato come quello -chissà, forse anche fuori dalla giurisdizione della Narcotici locale- anche se, solo per tranquillità, si accese anche un sigaro De Nobili riempiendo il bigigattolo di una nuvola precauzionale del classico fumo preferito dalla mafia. Dopo aver respirato un po’ di cannabis alzò lo sguardo verso l’orologio che infatti adesso segnava un’ora differente, sebbene potesse anche dipendere dal fatto che Doc si era dimenticato dove erano posizionate prima le lancette.

Vizio di Forma / Thomas Pynchon, Einaudi, p. 360

20 sigle più belle delle serie tv

Ecco le 20 sigle più belle delle serie tv che in questi anni ho guardato. È una raccolta, non una classifica, quindi sono ordinate per come mi sono venute in mente, niente di più.

Peaky Blinders

Misfits

Justified

Sons of Anarchy

(qui la versione irlandese, e chi ha visto la serie sa perchè)

Boardwalk empire

Dexter

Chicago code

Shameless

Weeds

Game of thrones

True detective

The wire

The sopranos

Halt and catch fire

Black sails

Outlander

C.S.I. Las Vegas

Community

The L-World

Boris

Peaky Blinders

peaky blinders

-Siamo chiusi, signor Shelby.
-Portami da bere.
-Vuole che me ne vada?
-Sono venuto qui per avere compagnia. Dov’e’ Harry?
-Si e’ preso la serata libera. E’ andato al cinematografo. Come sta quel bellissimo cavallo?
-Gli ho appena piantato una pallottola in testa.
-Era zoppo?
-Mi ha guardato storto. Non e’ una grande idea guardare storto Tommy Shelby.
-Che spreco.
-Gia’. E’ proprio vero, e’ stato uno spreco. Sai, in Francia… in Francia mi sono abituato a vedere morire gli uomini.
Non mi sono mai abituato a vedere morire i cavalli. Muoiono in modo atroce.
-Ho trovato un vestito, come mi aveva chiesto.
-Grazie.
-Andremo a Cheltenham? A Cheltenham c’e’ un evento importante, giusto?
-Ci sara’ il Re, li’.
-Re Giorgio?
-No. Re Billy Kimber… con tutti i suoi uomini.
-E io cosa dovro’ fare?
-Per due sterline, farai quello che ti chiedo di fare.
-Ne voglio tre. Se devo incontrare un Re… non voglio indossare un vestito da due soldi. E le avevo chiesto di lasciarmi cantare. Ora anche questo fa parte dell’accordo.
-Da quando? Da quando ha abbozzato un sorriso.
[…]

-Allora, cosa canti?
-Quello che vuole.
-Va bene. Sali su una sedia.
-Ok. Allegra o triste?
-Triste.
-Va bene. Ma la avverto… le spezzero’ il cuore.
-E’ gia’ stato spezzato.

[Peaky Blinders, s01e02]

la pericolosità delle donne

Guinevere-from-King-Arthur

Osservai il pugnale, abbandonato fra le vesti, sul pavimento. 

-Al nostro primo incontro minacciasti di uccidermi se ti avessi toccata. Oggi dovresti togliermi mille vite.

Dana sorrise e, senza dire nulla, si scosse, si alzò, raccolse le vesti e si ricompose in fretta.

Quando fu sulla porta, prima di chiudersela alle spalle, si girò.

-Ero mille volte più innocua, per te, con il pugnale in mano

(Altai / Wu Ming. Einaudi, p. 168)